10 febbraio 2007
“Un po’ di caldo farà bene al Nord. E poi ci sarà l’adattamento…”
Fatto sta che le risposte anticonformistiche che l'economista americano, di origine indiana, Indur Goklany, dà alle domande di Paolo Bricco sul Corriere della Sera del 5 febbraio 2007, delineano una visuale nuova sul problema del riscaldamento globale e dell'effetto serra. Quei 2 gradi centigradi in più che sembrano mettere in crisi il Mondo.
Preoccupazioni, certo, ci sono, dice l'economista. Che però non fa l'indiano. Non nasconde rischi e pericoli, come fanno certi revisionisti talmente accecati dall'odio per l'ambiente e gli ecologisti da negare l'evidenza. Cioè l'Olocausto.
No, l'indiano usa un'altra tattica: fa dipendere dalla prospettiva dell'aumento termico sia lati negativi, sia lati positivi. E' la prima volta che qualcuno parla di effetti favorevoli innescati da un leggero riscaldamento. "Ne trarranno benefici l’agricoltura e l’abitabilità del Nord del pianeta". E poi uomini e natura metteranno in atto un poderoso processo di "adattamento", di cui nessuno parla mai. Piuttosto, è facile immaginare che i Paesi poveri abbiano maggiori difficoltà in questo adattamento.
L'intervista è affascinante. Ci piace, anche se non ci convince del tutto. L'indiano dopotutto è un economista, un altro, l'ennesimo economista che parla di possibili effetti economici di fattori di ordine complesso, in cui neanche i climatologi si raccapezzano. Il riscaldamento in atto è eccezionale o ciclico? Torneremo alle temperature preesistenti, come è sempre avvenuto in passato, o no?
Se perfino le scienze della terra non sanno rispondere, non vediamo come potrebbe farlo proprio l'economia, che spesso non ne azzecca una riguardo a fenomeni molto più circoscritti e per tempi molto brevi, come una congiuntura. Ma tant'è, ormai gli economisti, come un tempo i sociologi (oggi per fortuna i direttori di giornali li hanno capiti e non se li filano più), escono sempre più spesso dal campo seminato, dove danno mediocre prova di sé, e per rivalsa vogliono metter il becco dappertutto. (Nico Valerio).
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"È tutto molto, molto complicato. Noi non sappiamo con certezza quanta parte dell’effetto serra sia dovuta all’uomo e quanta invece abbia una origine prettamente naturale. Ma una cosa è certa: la crescita economica, che rafforza la capacità di adattamento dei sistemi economici e sociali, rappresenta la migliore delle cure. Senz’altro più efficace di ogni terapia di contrasto del cambio climatico decisa a tavolino".
Indur Goklany, economista di origine indiana, è una delle voci dell’America bushiana. Vicedirettore per le politiche scientifiche e tecnologiche dell’ufficio di analisi del Dipartimento degli Interni, non è solo un intellettuale del pensiero liberista che ha spesso collaborato con il Cato Institute e occasionalmente, in Italia, con l’Istituto Bruno Leoni. È soprattutto uno dei principali tecnici della Washington di George W. Bush, tanto da avere rappresentato in passato gli Stati Uniti nel Comitato intergovernativo sui cambiamenti climatici (Ipcc). E, se Bush ora è impegnato a porre dei distinguo sul fronte ambientale, la linea dell’amministrazione resta ferma su alcuni punti cardini, tra cui il rifiuto del protocollo di Kyoto.
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Dottor Goklany, c’è una correlazione tra lo sviluppo economico e il cambiamento del clima?
"C’è una correlazione approssimativa tra le emissioni prodotte dall’uomo di gas a effetto serra e il livello di sviluppo economico, e si suppone che l’aumento delle emissioni possa far aumentare le temperature globali. Però, i modelli climatici finora utilizzati a sostegno dell’idea che l’uomo sia il principale responsabile del riscaldamento dipendono da così tante variabili e parametri che, in pratica, si può ottenere qualunque risultato".
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Ritiene che questo crei un problema morale?
"Se la correlazione è reale, crea un dilemma morale soltanto se si ritiene (e soprattutto si dimostra) che i benefici dello sviluppo economico sono inferiori ai costi del mutamento climatico. Un mio paper affronta appunto tale questione: è meglio un mondo più ricco e più caldo, o uno più freddo ma più povero? I miei calcoli, che si basano su valutazioni impiegate successivamente anche nel rapporto Stern compilato per il governo Blair, mostrano che il benessere globale netto è maggiore se il mondo è più ricco e più caldo. Ciò vale anche se si usano le stime sugli impatti del riscaldamento, sicuramente sovradimensionate, dello stesso rapporto".
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Ma il mutamento del clima produrrà solo danni?
"No: determinerà sia costi che benefici, a seconda della regione e del settore economico. L’ultimo rapporto ufficiale dell’Ipcc indica che, a livello globale, con un riscaldamento attorno ai 2 gradi il bilancio sarà positivo. Le latitudini più alte beneficeranno di una riduzione delle morti per freddo e di una maggior produttività agricola e delle foreste. Alle latitudini più basse, si osserveranno più ondate di calore e una riduzione della produttività agricola, oltre a una maggior diffusione della malaria, malattie tropicali e innalzamento del livello dei mari. Ma questi studi generalmente ignorano i fenomeni di adattamento, possibili perfino senza progresso tecnologico".
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E questo cosa comporta?
"Comporta che oggi si finge che le popolazioni del futuro non miglioreranno la loro capacità di adattamento, pur disponendo di un più alto livello di sviluppo economico e tecnologico. Perfino l’Africa sarà più ricca e quindi sarà meglio in grado di affrontare le conseguenze del riscaldamento globale. Nel mio libro "The Improving State of the World", appena pubblicato dal Cato Institute, dimostro come, storicamente, il progresso tecnico e la crescita economica abbiano consentito di eliminare malattie molto temute: per esempio, negli Usa tra il 1900 e il 1997 i tassi di mortalità per tifo e malattie paratifoidi sono crollati del 100%, per le malattie gastrointestinali del 99,8%, e per la dissenteria del 99,6%. Perché non dovrebbe accadere lo stesso, per queste e altre malattie, nei Paesi in via di sviluppo?"
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Se la distribuzione di costi e benefici sarà diseguale, c’è un dovere a redistribuirli con equità?
"Fino a quando non saremo in grado di migliorare la nostra comprensione di come questi costi e benefici siano effettivamente distribuiti, sarà impossibile ragionare su opzioni redistributive. Sappiamo per certo che i Paesi in via di sviluppo soffriranno di più del riscaldamento globale: ma ciò accadrà non perché saranno più esposti ai cambiamenti del clima, ma perché la loro capacità di adattamento, almeno nel presente, è bassa a causa della scarsità di risorse economiche e umane per scovare e implementare soluzioni. La mitigazione del riscaldamento globale, però, farà ben poco per loro. Piuttosto andrebbe migliorata la loro reattività a problemi esistenti che potrebbero essere esacerbati dal riscaldamento".
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Quindi, quale strategia suggerisce?
"Se è vero che il riscaldamento globale, piuttosto che creare problemi nuovi, rende più gravi quelli esistenti (come la fame, la malaria e la vulnerabilità delle aree costiere), allora la chiave sta nell’affrontare questi problemi subito. Il riscaldamento globale sarebbe responsabile, nel 2085, dell’8% delle morti di questo tipo. Quindi, mantenere le temperature ai livelli del 1990, convenzionalmente utilizzato come anno base, ridurrebbe la mortalità dell’8%. Ma il protocollo di Kyoto, il cui costo è stimato in 165 miliardi di dollari per il solo 2010, potrebbe salvare solo lo 0,42% di queste persone. Per contro, le stesse Nazioni Unite stimano che, affrontando direttamente i singoli problemi e non una concausa quale è il riscaldamento globale, con una spesa di soli 22 miliardi all’anno si potrebbero salvare tra il 50 e il 75% di esse. Quindi, la riduzione della vulnerabilità è molto più efficace delle politiche di riduzione delle emissioni".
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Scusi, ma allora non servono misure di contrasto dell’effetto serra?
"Nel lungo termine qualche misura di mitigazione può essere necessaria, ma credo che la priorità sia decisamente quella di stimolare lo sviluppo economico dei paesi più arretrati e aiutarli a ridurre la loro vulnerabilità, oltre che implementare misure di riduzione delle emissioni economicamente efficienti e approfondire la nostra comprensione del clima. Questo approccio di adattamento sarebbe in grado di migliorare il benessere umano e ambientale assai meglio di avventate riduzioni delle emissioni prese per compiacere dei cattivi maestri".
A me non dispiace un po' di riscladamento del pianeta, visto che vivo in Canada...:-)
Comunque anche qui alcuni scienziati danno interpretazioni diverse da quelle che imputano solo all'uomo queste conseguenze.
Da liberale ho ospitato quel parere che hai letto, da super-ecologista della prima ora, sia pure liberale, penso che la scienza non ha dato ancora un parere definitivo sulla faccenda. E' vero che solfatare e vulcani fanno il loro mestiere, e che perfino i miei amati animali inquinano - posso dirlo io che conosco la natura (non come certi finto-ecologisti rossastri)- dato che che il colon di vacche e pecore immette nell'atmosfera direttamente o no più metano e CO2 dell'intero sistema trasporti. Ma *anche* l'uomo ha gravi responsabilità. Sù, non facciamo gli egoisti.
Perciò, qualche cambiamento dobbiamo pur farlo. Tutto quel petrolio per far muovere a passo d'uomo tutte quelle carabattole di latta, be', è un non-senso.
ciao e buona neve (beata te...)
Qui fa un caldo terribile, innaturale. Visto oggi 2 tizi in maglietta estiva...
ciao
Nico
http://nicovalerio.blogspot.com/
poi volevo chiederti se conosci un buon posto (forum, mailing list, newsgroup,...) dove si può parlare di ecologia seriamente (in italiano)...
saluti, giorgio
E' vero, come dice Goklany, di adattamento non si parla mai, d'altra parte però se i cambiamenti climatici fossero tali da stravolgere il pianeta in pochi decenni, potrebbe non esserci il tempo sufficiente perché avvenga quanto auspicato dall'economista americano.
L'adattamento biologico presuppone tempi abbastanza lunghi, quello culturale è più veloce, ma forse non sufficientemente veloce.
Saluti
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