30 settembre 2019
CO2 cibo per le piante non inquinante, alza così poco le temperature? Alcuni scienziati: no all’allarmismo.
Le enormi emissioni di CO2 che abbiamo avuto negli ultimi decenni sono state collegate più o meno correttamente a fenomeni macroscopici come El Nino, tornado, inondazioni, eruzioni di vulcani, scioglimento di ghiacciai (nonostante che eventi simili si siano già verificati in passato secondo cicli pluri-millenari); a cui si sono aggiunte attività umane grandi produttrici di CO2 o metano, come incremento del traffico aereo, sviluppo industriale vorticoso e senza regole in Asia, allevamenti animali intensivi ecc.
Ma, allora, se l’aumento di CO2 in pieno “effetto serra” è davvero la causa dominante del riscaldamento globale, che a sua volta sembra favorirlo, come mai – si chiede il largo pubblico e perfino più d’uno scienziato – tali eventi disastrosi hanno avuto modeste conseguenze sul piano statistico generale, cioè un aumento della temperatura media della Terra di “appena” 0,8°C dal 1850 a oggi, ben poco se lo paragoniamo all’innalzamento della CO2? Se lo chiede con noi anche New Ice Age.
Dopo tutto quello che è successo, che altro deve accadere o dobbiamo fare perché davvero si verifichi il Riscaldamento globale più temuto dagli statistici? La Terra trova forse il modo di compensare e riequilibrare? Ci sono “ritardi” secolari o millenari?
Insomma, la teoria che la CO2 sia strettamente e immediatamente collegata all’aumento della temperatura media sulla Terra e che in tema di anomalie climatiche e riscaldamento globale ci aspettino eventi ancora più drammatici di quelli disastrosi già verificatisi, sembra fare acqua da tutte le parti, probabilmente perché non tiene conto della marcata ciclicità millenaria di tali eventi (v. grafico degli ultimi 11 mila anni, qui accanto) e di concause naturali, cioè astronomiche (anomalie dell’insolazione terrestre, dicono gli astronomi), e rischia perciò di assumere quasi il carattere di una “verità” religiosa.
In realtà è vero che la curva della CO2 non è in fase temporale con quella della temperatura, come si legge in un sito Usa di divulgazione scientifica critica. Quando la Terra esce da un periodo glaciale ed entra in uno interglaciale, com’è il nostro caso, il riscaldamento non è provocato dalla CO2, ma da fenomeni tipicamente astronomici, come i cambiamenti dell’orbita terrestre. Questi periodi interglaciali si verificano ogni 100 mila anni, e il meccanismo di rotazione della Terra e il Sole stesso vi hanno una grande importanza.
Una petizione sul “Riscaldamento Globale Antropico”, non solo di principi generali ma insolitamente argomentata con dettagli scientifici, è stata indirizzata alle Autorità della Repubblica da circa 90 scienziati italiani il 4 giugno 2019, proprio alla vigilia del discorso della giovane Greta Thumberg all’ONU:
Più nota a livello internazionale la “Dichiarazione europea sul clima” di 500 scienziati interessati al clima appartenenti a tredici Paesi d'Europa e a vari Paesi extra-europei compresi Usa e Russia, una eccentrica è stata indirizzata al segretario generale dell’Onu contro l’allarmismo climatico e le conseguenze sia scientifiche, sia economiche che potrebbe avere tale drammatizzazione, non suffragata – sostengono gli scienziati – da vere prove scientifiche.
Meno argomentata, più sintetica e quindi di tono più tranchant rispetto a quella italiana dei 90, anche questa dichiarazione contesta l'allarmismo sul riscaldamento globale ("Non c'è emergenza climatica"), facendo notare che di fronte al forte aumento della CO2 (che non può essere considerato un inquinante essendo alla base della vita sulla Terra e addirittura nutrimento per le piante, a tal punto da favorire lo sviluppo delle foreste), provocato non solo da fattori antropici ma anche naturali, si è avuto nella realtà un aumento di temperatura media nettamente inferiore alle aspettative e agli allarmi. Segno evidente che il collegamento tra CO2 e temperatura non è né così diretto né così immediato come si vuol far credere. La politica climatica, insomma, si basa modelli inadeguati
I due appelli, come si vede, contraddicono la stragrande maggioranza degli Enti, degli studi e degli scienziati specialisti di tutto il Mondo, il che avrà pure la sua importanza, e in particolare l’ICPP, l’ente che pur non conducendo ricerche autonome si è dato il compito di rappresentare una sorta di Consensus internazionale attraverso la selezione degli studi in materia.
Però, non possiamo negare che la discussione possa lasciare il campo scientifico e approdare a quello economico e sociale. Con modelli matematici ancora così imperfetti, le drastiche misure terapeutiche proposte possono essere “crudeli” e danneggiare gravemente l’economia mondiale già toccata da squilibri e crisi, a cominciare dai Paesi più poveri, se questi dovessero rispettarle, oppure interessare soltanto il Nord-America e ancor più i Paesi Europei, finora dimostratisi i più sensibili al problema.
Anche con queste preoccupazioni accessorie presentiamo entrambi i documenti, che contrastano con la stragrande maggioranza degli studiosi, per completezza d’informazione e in una corretta dialettica ecologica e liberale che fa ricorso come metodo allo strumento del dubbio. I punti poco chiari o non dimostrati sono diversi, come abbiamo visto sopra per il collegamento CO2-temperature. Il pericolo, in una informazione vistosamente carente o unidirezionale, è sempre il conformistico “pensiero unico”. Infatti, se è vero che “la scienza è scienza”, è altrettanto vero che ipotesi di lavoro, proiezioni e modelli matematici sono opzioni umane soggette a ogni limite, dalle valutazioni metodologiche ai condizionamenti culturali e politici.
AGGIORNATO IL 6 OTTOBRE 2019
20 gennaio 2018
Rifiuti in città. Oltre ai soliti vizi, ora anche i nuovi gruppi politici incapaci e accecati dagli slogans.
La crisi dei rifiuti e l’incombente bolla dei trasporti urbani della Capitale, pongono più in generale la questione del pubblico che fa impresa. Mestiere difficile, perché le finalità generali sono diverse da quelle private, ma non impossibile, se i manager sono capaci e gli amministratori distinguono il legittimo indirizzo politico dal ruolo operativo. L’efficienza, però, non va d’accordo con le pregiudiziali ideologiche e con interessi elettorali e di potere dei partiti, anche di quelli appena arrivati. Un’azienda enorme come l’Atac di Roma è già all’ultima spiaggia, anche se non può fallire e dovrà essere commissariata, ma continua a chiudersi nell’elegante dimensione detta «in house».
Potrebbe cercare una (difficile) soluzione di mercato, ma è sgradita a politica e sindacati che fanno resistenza, perché richiederebbe cure da cavallo, pur inevitabili. Meglio i debiti. Contro l’ingresso di un socio privato, magari anche le Ferrovie, da Milano-Casaleggio è arrivato il veto. In questo caso la scelta politica è contro la democrazia diretta: pur di non indire il referendum radicale sulla privatizzazione, si sta rinnovando il contratto con Atac. Meglio gestire migliaia di dipendenti, il 25% dei quali dichiara di essere disabile, e rassegnarsi ad un terzo dei bus che non esce in strada, e se esce si rompe.
Il caso Brescia è – all’opposto – quello di rifiuti che rendono nel tempo miliardi, e trasporti urbani che possono essere aiutati in sinergia. Grazie ad una scelta politica a favore del termovalorizzatore più premiato del mondo, il Comune ha chiuso bilanci d’oro, ha diminuito la Tari, ha riscaldato mezza città con la monnezza non differenziabile e si è persino regalato una metropolitana: un cerchio che si chiude virtuosamente. Scelta politica, dicevamo, diversa da quella di Roma che, pur avendo finalmente sepolto la più grande discarica d’Europa, non vuole termovalorizzatori, e deve baloccarsi con 4.700 tonnellate al giorno di immondizia, 1,7 milioni anno, e contemporaneamente rischia di essere travolta dai debiti miliardari di un’azienda trasporti che deve coprire un’area grande come due province lombarde. L’effetto domino è devastante: cittadini che aspettano eternamente il bus, in mezzo ai rifiuti.
Quello che si prepara è insomma un disastro finale su entrambi i fronti, che l’attuale amministrazione ha aggravato, sommando rotazione continua del management e guida politica eterodiretta. Senza una visione complessiva dei servizi pubblici, è certo che i trasporti – in una città tanto grande – sono un problema che ammazzerebbe anche il miglior privato, perché il business è davvero diabolico, dipendendo da sovvenzioni e biglietti, che gli utenti evadono in percentuali paurose. I rifiuti, invece, costituirebbero un ciclo virtuoso e persino potenzialmente lucroso se si capisse che tutto, anche l’ultimo rifiuto, può essere valorizzato. Ma non va così, e i proclami sui rifiuti zero (opzione respinta in tutta Europa) e la differenziata promessa al 70% (è oggi sempre al 40% di Marino) sono utopie spostate nel tempo.
E allora? Campo libero al turismo della monnezza, cercando qualcuno che a caro prezzo se la prenda, possibilmente non Regioni a guida Pd o Pizzarotti di Parma cacciato via anche per questo. Su 1,7 milioni di tonnellate l’anno, circa il 52%, in assoluto 884 mila tonnellate, devono viaggiare: vicino (Lazio) e lontano (57 mila in Austria), per non parlare delle 146 mila di organico che vanno in Friuli. In sostanza, questo non voler termovalorizzare in casa (solo 60 mila tonnellate nell’inceneritore Acea di proprietà), regala vantaggi economici altrui, riempiendo ferrovie ed autostrade (qualche volta anche navi che fanno il percorso inverso dei migranti) di inquinamento itinerante. Un termovalorizzatore da 300 mila tonnellate costerebbe 300 milioni, ma si spendono ogni anno 200 milioni (su un totale Tari di 670), di cui 63 di trasporto, per piazzare l’immondizia altrove.
E l’inquinamento? Si fa in fretta a parlare di termovalorizzatori, ma l’inquinamento? Ebbene tutti e 47 gli impianti esistenti in Italia producono 5 milioni di tonnellate all’anno di CO2. Meno di quanto produce il solo girovagare monnezzaro della Capitale, che già convive – ogni mattina tra le 7,30 e le 8,30 – con la produzione di 7 milioni di tonnellate di CO2 del milione di automobili in circolazione a Roma in un’ora di punta… Ma quelli fanno bene alla salute. (BEPPE FACCHETTI)
IMMAGINI. 1. Scalinata di Trinità dei Monti a piazza di Spagna dopo una importante partita di calcio (foto Messaggero). 2. Maiali che grufolano tra i rifiuti nella periferia di Roma. 3. Via della Conciliazione (S.Pietro) dopo uno dei tanti eventi del Vaticano. 4. Rifiuti e perfino deiezioni umane dietro le auto nel parcheggio della stazione Cipro della Metropolitana romana (foto N.Valerio 2017).
03 dicembre 2017
Ma escludendo le eruzioni vulcaniche, « i satelliti non mostrano accelerazione nel riscaldamento globale ».
Ben noto negli ambienti dei climatologi americani come scienziato riduzionista, se non negazionista dell’influenza dell’uomo sul progressivo riscaldamento globale dell’atmosfera (“Global Warming”), John Christy ha presentato un’elaborazione scientifica realizzata col collega Richard McNider, entrambi dell’Università dell’Alabama a Huntsville, che rivede l’intero fenomeno del riscaldamento globale causato dall'effetto serra. Lo studio è stato finanziato dal Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, che corrisponde a un nostro Ministero governativo.
La tesi principale – se abbiamo capito bene dall’articolo (bisognerebbe leggere lo studio originale, finora introvabile) è che i dati recenti sarebbero stati falsati specialmente dalle eruzioni vulcaniche generando una tendenza patologica. Ma, ci assicurano coloro che seguono da anni il dibattito sui dati climatici negli Stati Uniti, Christy avrebbe riproposto un suo vecchio e abituale cavallo di battaglia polemico. Crediamo di fare cosa utile riportando l’intero articolo (*). Per i più esperti, tecnici o i veri appassionati riportiamo anche un lungo articolo (**), ben illustrato da grafici, di Pat Michaels e Chip Knappenberger (“Climate models versus climate reality” sul sito specializzato Climate etc. (NV)
RIFERIMENTI
* http://dailycaller.com/2017/11/29/study-satellites-show-no-acceleration-in-global-warming-for-23-years/?utm_source=site-share
** https://judithcurry.com/2015/12/17/climate-models-versus-climate-reality/
10 aprile 2017
Origini dell’ambientalismo: il genio Peccei, il Club di Roma e i “Limiti dello sviluppo”, anzi, della crescita.
Non erano quelli i “Limiti dello sviluppo”, come poi è rimasto nel titolo errato della Relazione nella traduzione italiana, perché lo sviluppo sempre procede con lo spirito degli Uomini e con gli eventi della Storia, ma solo della "crescita" (“The Limits to Growth” era il titolo originale).
Per la prima volta uno studio dettagliato e scientifico (anche se un po' rielaborato nelle conclusioni, per aumentare il salutare effetto shock sui Governi, come ammise anni dopo lo stesso Peccei), in modo organizzato e fornendo le prove scientifiche, metteva a disposizione dell’opinione pubblica il quadro completo della compatibilità delle azioni umane con lo “stato di salute della Terra”.
Il Rapporto fece epoca, fu tradotto nelle principali lingue e fu diffuso in tutto il Mondo. In estrema sintesi e con parole nostre, ecco lo scenario che rappresentava una ipotetica diagnosi, che poi gli eventi si incaricarono di confermare in gran parte, accompagnato da un’ipotetica reazione correttrice (o terapia) possibile:
13 aprile 2016
Referendum anti-trivelle: solo col “Sì” niente più scandalosi regali ai petrolieri, e coste più protette.
MOTIVI OSCURI, TESTI POCO CHIARI, INFORMAZIONE SCARSA. In realtà dell’intera questione gli Italiani sanno poco o nulla, oppure hanno un’idea confusa, distorta, falsificata o parziale. Come mai? C’è la tradizionale ostilità dei politici italiani all’istituto del referendum, comprensibile in uno Stato liberale fondato sul Parlamentarismo e la democrazia rappresentativa. E questo è giusto e sano. Invece non è giusto ricorrere al mezzuccio – caro ai Borbone o al Papa Re – di mantenere nell’ignoranza i cittadini per condizionarli (p.es. con un’informazione carente o distorta in televisione): è cosa per niente liberale. Fatto sta che questo è di per sé un referendum equivoco, poco chiaro non solo nelle complicate clausole concessorie e industriali, ma perfino nei suoi aspetti ecologici; insomma poco incisivo.
Un referendum equivoco in sé, perché il testo della legge da abrogare è stato scritto malissimo, e – diciamolo – non per garantire le numerose libertà dei cittadini in materia (ambiente pulito, salute, concorrenza economica ecc.), ma solo per fare favori ai petrolieri, anzi ai “petro-gasieri” (perché, in cambio di che cosa?), tanto da non rendere evidenti ma discutibili le conseguenze stesse dell’abrogazione di alcune parole (oggetto, appunto, del referendum). Dopodiché, la confusione in materia tra tesi contrapposte, parziali o mistificatorie di propagandisti, lobbisti, giornalisti, economisti, tecnici e cittadini profani è il logico corollario della scarsa chiarezza normativa, ecologica ed economica sulla questione. Perciò, non c’è da meravigliarsi se i quesiti del referendum sono stati propagandati in modo settario e fazioso da tutti: fautori del Sì, del No e dell’astensione.
IL “NO” NASCOSTO NELL’ASTENSIONE. Quest’ultima, poi, è un’altra forma di No, giuridicamente del tutto legittima in quanto implicitamente prevista dai nostri grandi Padri Costituenti, ma – diciamolo – la più scorretta dal punto di vista dell’etica civica (come ha voluto dire il presidente della Corte Costituzionale, Parolo Grossi), anche perché - aggiungiamo noi - i fautori del No che opportunisticamente non si recano a votare traggono un vantaggio indebito dalla regola del quorum (il richiesto limite minimo di votanti: metà degli elettori più uno) e nel computo finale s’ingrandiscono oltre i propri meriti, confondendo il loro voto col più vasto numero di cittadini passivi, pigri, stanchi o nemici della Politica, che non vanno mai a votare (e in Italia sono almeno il 40% degli elettori), trovandosi così paradossalmente ad aver manifestato comunque un “voto”, anzi a essere determinanti senza aver fatto nulla. Sarà lecito, ma non è giusto politicamente né civicamente. Per questi motivi il quorum, a nostro parere, deve essere abolito, specialmente oggi quando sempre meno cittadini si recano a votare, accampando i più diversi motivi, l’ultimo dei quali è l’opposizione al quesito referendario. Di questo passo, visto che ormai pochi si recano a votare – qualunque sia l’elezione – nessun referendum potrà mai più esser valido. Dovrebbe bastare, come in Svizzera o negli Stati Uniti che il Sì riporti anche un solo voto in più del No, o viceversa.
REGIONI CONTRO STATO. Per di più il referendum è stato indetto con la scusa dell’ecologia, ma in realtà soprattutto per motivi politici e amministrativi. Va letto come un tentativo di rivincita anti-storica, una rivolta delle Regioni – sbagliata, sbagliatissima – contro lo Stato, per riavere competenze esclusive, come l’ambiente, che gli vengono sottratte, e conquistare magari competenze su energia e altro ancora. L’unico vantaggio del No, anzi, sarebbe proprio questo: una sacrosanta e ben meritata batosta per le Regioni richiedenti, che hanno rialzato la cresta contro lo Stato e vorrebbero riavere tutti i loro vecchi privilegi con cui hanno male amministrato e dilapidato ricchezza, e che insieme con tante altre locali “incompetenze” esclusive hanno causato all’Italia molti danni economici, tanto clientelismo mafioso e tanta corruzione. Infatti, proprio per dare una lezione alle Regioni, solo per questo, c’è chi ha deciso di votare No: scelta rispettabile, se il problema fosse solo questo. Ma non possiamo fare come il marito sciocco che per punire la moglie decide di evirarsi. Lo specifico energetico-ambientale, anche se in questo referendum non sembra prevalente rispetto ai favori sfacciati ai “petrolieri”, ha pur sempre la sua importanza per noi ecologisti, e deve giustamente prevalere nella valutazione prima del voto, indipendentemente da chi lo ha proposto.
SBAGLIATO NON VOTARE. Allora non dovremmo andare a votare? E no, perché così otterremmo l’effetto paradosso di far vincere abusivamente delle due tesi, quella peggiore: il No. Perché sarebbe la scelta peggiore? Perché vanificherebbe i vantaggi notevoli apportati da una vittoria del Sì.
I RISULTATI DELLA VITTORIA DEL SI’.
2. Ambiente. Non vuol dire che le estrazioni entro le 12 miglia cesseranno subito, ma entro un arco di alcuni anni, e perfino potranno esserci nuove proroghe, ma precedute da nuove valutazioni di impatto ambientale (come fa notare in un articolo, con altri particolari interessanti, l'ex giudice Gianfranco Amendola). Quel che è certo, è che l’allontanamento, permetterà di ridurre i rischi di inquinamento e paesaggistici, di controllare meglio e prevenire eventuali danni ambientali causati dagli apparati di estrazione, che se più vicini alle coste, intensamente abitate e interessate anche al turismo e alla pesca, potrebbero avere conseguenze più nefaste.
3. Libertà della politica tariffaria e maggiori introiti per lo Stato. La collettività, e per essa lo Stato, avrebbe il vantaggio sicuro di riappropriarsi della libertà contrattuale, cioè di non privarsi in futuro dell’arma della gestione intelligente dei rinnovi di concessione dell'estrazioni di idrocarburi – quando sarà il momento opportuno – in cambio di congrue royalties, a seconda dei prezzi di mercato.
4. Cessazione del rinnovo automatico sine die. Darebbe lo stimolo alle società concessionarie spingendole a estrarre tutto il petrolio o gas possibile fino alla scadenza della concessione. Ma aumentando le estrazioni oltre la soglia massima della franchigia esente da royalties, dovrebbero finalmente pagare le royalties che oggi non pagano allo Stato (v. oltre).
Nessun altro scopo o conseguenza è previsto. Il Sì al Referendum non vuol dire eliminazione di piattaforme, né licenziamento di operai e tecnici. Vuol dire solo ridurre in modo notevole i danni ambientali ed economici per lo Stato. Neanche un danno per l'energia del Paese si verifica. Infatti lo Stato italiano - a differenza di altri Stati - con la concessione cede la proprietà del petrolio o gas estratto ai concessionari privati - spesso società straniere - che ne possono fare quello che vogliono, e spesso lo esportano. Quindi, non è vero che tutto il gas e il petrolio estratto resta in Italia. Altre conseguenze e altri aspetti del problema sono descritti in modo molto chiaro in un articolo di Quale Energia
SCANDALOSI AIUTI DI STATO AI PETROLIERI: TARIFFE BASSISSIME O NULLE. Questo è lo scandalo maggiore dell’intera faccenda. Le royalties, calcolate in percentuali del valore di mercato del prodotto estratto, sono quote che le ditte concessionarie pagano in cambio del diritto di sfruttamento al concedente, il proprietario del suolo o dell’area marina (lo Stato, cioè idealmente tutti noi cittadini pro quota). Ma a parte che chi tiene il conto degli idrocarburi realmente estratti ogni anno, in tonnellate o metri cubici, sono le stesse aziende concessionarie, e quindi il concedente Stato deve fidarsi, queste royalties che all’estero non sono quasi mai inferiori al 30%, in Italia sono bassissime, un vero regalo ai petrolieri: 7% per l’estrazione di gas e petrolio a terra, 4% per l’estrazione di petrolio in mare. A queste royalties ridicole per fortuna si aggiunge un 3% per il fondo per la riduzione del prezzo dei prodotti petroliferi, se la risorsa è estratta sulla terraferma, o per la sicurezza e l’ambiente se estratti in mare (come si legge sul sito del Ministero dello Sviluppo Economico). Da tutte le royalties pagate dalle aziende che operano in Italia, lo Stato ricavo la miseria di 300 milioni circa all'anno.
Restrizioni ambientali molto più severe impongono gli altri Paesi d'Europa, come riferisce un articolo del Fatto. La Norvegia p.es., pur avendo il clima che ha, coste rocciose e quasi disabitate, impone alle piattaforme una distanza di almeno 50 chilometri dalla costa, altro che meno di 12 miglia come fa l'Italia che pure ha coste abitatissime e piene di bagnanti! Mediamente più alte le royalties negli altri Paesi rispetto all'Italia. La tassazione totale in Norvegia arriva in media al 78%, secondo uno studio di Nomisma-Energia, utile per chi vuole approfondire tutta la materia (ci sono molte tabelle). E' consultabile in originale qui.
Intanto, data la gravità del prolungato danno erariale, il leader dei Verdi, Angelo Bonelli ha inviato un esposto alla Corte dei Conti in cui calcola in circa 800 milioni di euro il regalo che il Governo fa ai petrolieri. Del resto, il rifiuto immotivato (anzi, falsamente motivato con un divieto di legge) di Renzi di accorpare il Referendum alle Elezioni amministrative (election day) è costato ai cittadini italiani circa 300 milioni di euro.
Ma, ripetiamo, più grave ancora delle spese ottuse per impedire l'election day e limitare l'afflusso alle urne dei cittadini, è il regalo enorme che il Governo, impegnando lo Stato italiano, fa ogni anno, ai già ricchissimi petrolieri, che già godono di sovrapprofitti fuori mercato dovuti ad accordi di cartello già in passato sotto la lente del Garante per la Concorrenza, alla lentezza estrema con cui adeguano il prezzo al pubblico della benzina rispetto ai costi decrescenti del petrolio greggio (e all’improvvisa rapidità quando avviene i costi salgono), in un ben noto meccanismo perverso e vischioso che è sempre a favore del produttore e mai del cittadino acquirente. Altro insulto all’uguaglianza liberale, cioè dialettica, delle posizioni di domanda (cittadini acquirenti) e offerta (cittadini produttori-venditori) di cui scriveva spesso il grande Einaudi.
Ma non è finita: il grave deve ancora venire. Infatti, queste percentuali di royalties già così scandalosamente basse, sono irragionevolmente azzerate da una soglia minima o franchigia, come riporta il sito del Ministero. Le società concessionarie, infatti, evidentemente viste dai politicanti che fanno le leggi e dai funzionari dello Stato poco meno che come “eroi” o “santi francescani”, i soli a lavorare in Italia, anzi gli unici che si sacrificano per il Bene di tutti e si addossano inenarrabili sacrifici al posto di una viziata e fannullona collettività, e che quindi occorre premiare, non pagano nulla allo Stato italiano fino alla bellezza di 50.000 tonnellate di petrolio estratto o 80 milioni di metri cubici di gas naturale in mare ogni anno (20.000 ton o 25 milioni di mc a terra). In totale lo Stato regala ogni anno alle aziende oltre 3 milioni di tonnellate di petrolio (e regali analoghi per il gas).
E poiché l’interesse dei titolari delle concessioni è quello di pagare meno royalty possibile, la proroga della durata delle concessioni fino all’esaurimento dei giacimenti graziosamente concessa dal Governo ai poveri “petro-gasieri” equivale a dire loro: «estraete meno che potete e non versate nemmeno un euro di royalty, tanto avete tutto il tempo che volete per sfruttare il giacimento», come giustamente fa notare il sito economico Cetri-tires.
Capito il regalo? Ecco il motivo del grande interesse dei “petro-gasieri” e del Governo “amico” al rinnovo senza limiti di tempo, ad libitum, delle concessioni, per di più quasi gratuito. Ora la domanda vera che deve porsi il cittadino, tanto più se liberale e-o ecologista, è: come mai questa liberalità inusuale all’estero nei Paesi avanzati? Che cosa c’è dietro? E in cambio di che cosa?
SE VINCONO I NO? Questa inquietante zona d’ombra, questa distorsione del mercato e della concorrenza, quest’uso spregiudicalo e di favore della politica delle tariffe agli “amici” e agli “amici degli amici”, queste anomalie gravi che danneggiano sia la libertà d’intrapresa, sia l’economia stessa e l’ambiente, resteranno tali, anzi faranno più danni di prima, se vincono i No e l’astensionismo col rinnovo automatico delle concessioni fino alle calende greche.
MISTIFICAZIONI E BUGIE. Per il resto ci sono molte idee sbagliate e mistificazioni. Non è un referendum che in caso di vittoria del Sì “metterebbe in ginocchio” la produzione e quindi i consumi energetici in Italia. Perché il referendum interesserà in modo diretto solo 17 concessioni da cui si estrae appena il 2,1 % dei consumi nazionali di gas e lo 0,8 % dei consumi nazionali di petrolio gas (Cetri-Tires cit.). Quindi, ammesso anche, e non concesso, che dovessero venire a mancare da un giorno all’altro, come sostengono i signori del No per propaganda (ma non è così), non succederebbe nulla di grave e il leggero calo di estrazioni sarebbe perfettamente compatibile con i normali alti e bassi dei consumi energetici, magari favorendo un minimo di risparmio energetico e di comportamenti virtuosi (Cetri-Tires)
Poi questo referendum non è un “referendum sul petrolio”, come pure ci piacerebbe (e come vanno dicendo per illudere i cittadini ignoranti alcuni propagandisti del Sì). L’ENI, ente italiano interessato alle estrazioni, ha diffuso dati secondo cui la produzione marina (il totale estratto offshore) sarebbe per il 93% di gas naturale liquido e solo per il 7% di petrolio. Ma allora, se questi dati sono veri, perché i fautori del No fanno balenare in caso di vittoria del Sì un maggior traffico di petroliere, travasi e rischi di maggiore inquinamento? Che c’entra il petrolio, se loro stessi dicono che si tratta quasi solo di gas naturale? Dove stanno le bugie, nei dati statistici aggregati o nella minaccia dell’andirivieni di petroliere? Insomma, propaganda basata su esagerazioni oppure dati addomesticati?
E nonostante il negativo impatto ambientale e paesaggistico, e gli indiscutibili danni all’ecosistema marino delle piattaforme in sé e dell’attività estrattiva, non c’è dubbio che il gas naturale sia oggi considerato una delle fonti di energia più pulite, che non inquina né l’acqua né il suolo, non provoca nella fase di combustione polveri sottili PM 10 o PM2,5, ma soltanto minime quantità di anidride carbonica CO2, ossidi di azoto Nox e trascurabili quantità di anidride solforosa SO2
Lasciare dove e come stanno le piattaforme, senza minimamente toccarle almeno con tariffe adeguate, non è affatto una “grande possibilità” energetica per l’Italia, come dice la propaganda dei petrolieri. Anzi, con il basso prezzo del petrolio, la scarsa qualità di quello italiano, le esigue rendite per lo Stato, e gli altissimi costi paesaggistici e ambientali delle piattaforme, estrarre non conviene più, almeno in questi anni.
E invece, no, non è vero niente. I siti che appaiono sulla mappa dell’Adriatico croato non sono funzionanti. L’americana Marathon Oil e la OMV, dopo aver ottenuto nel gennaio 2015 la maggior parte delle concessioni, hanno rinunciato nell’estate. Ma poiché l’opinione pubblica in Croazia, e non solo sulla costa, è contraria, e ci sono state manifestazioni di protesta nella popolazione, in ottobre il Governo croato ha sospeso la firma degli altri accordi, per riparlarne dopo le elezioni. Il nuovo Capo di Governo, Orešković, fin dal discorso inaugurale ha annunciato una moratoria alle concessioni petrolifere marine, che perciò non sono state ancora sottoscritte e sono sospese a tempo indeterminato, come riporta il sito Gli Stati Generali, che pubblica anche la mappa contestata..
Anche la Francia si è sfilata in modo ancor più aperto e deciso dalle inutili, antieconomiche e pericolose trivellazioni nel Mediterraneo. La ministra per l’ambiente, Royale, ha deciso una “moratoria immediata” sui permessi di ricerca degli idrocarburi che prelude all’abbandono delle ricerche di combustibili fossili dal terreno o dal mare. Anzi, riporta in un articolo La Stampa, farà di più: chiederà «l’estensione di questa moratoria all’insieme del Mediterraneo, nel quadro della convenzione di Barcellona sulla protezione dell’ambiente marino e del litorale mediterraneo». Quindi, altro che Italia: tutta l’Europa sarà chiamata a sospendere le trivellazioni. E sostegno migliore alle ragioni del Sì non si poteva avere, superando le beghe provinciali dei politicanti italiani.
CLUB ECOLOGISTI ED ESPERTI. Dal canto loro, la totalità degli ecologisti italiani e quasi tutte le associazioni del settore, dal WWF a Legambiente, compresa la moderata FAI, hanno invitato a votare Sì. Anche gran parte dei Radicali d’impronta liberal-ecologista, seguendo le analisi, sottili e non banali, dell’esperto Michele Governatori, è per un Sì “critico” e con riserve (quelle che abbiamo riferito sopra), ma pur sempre un Sì. Perché dire di sì a questo referendum nato male, gestito male e fatto conoscere poco e male, è pur sempre il “male minore”, rispetto al “No” o all’astensione, per i quali tutto resterà come prima. Bisogna accontentarsi.
LE DIECI DOMANDE IRONICHE D’UN LIBERALE. Una sintesi efficace e implacabile delle ragioni del Sì, sotto forma di questionario ironico, è quella del liberale Vittorio Vivona su Facebook:
«Al Referendum io non mi asterrò e voterò Sì, essenzialmente per le ragioni che qui espongo sotto forma di domanda.
1. Cosa ci fa questa norma mimetizzata tra i 999 commi dell'art.1 della legge di stabilità?
2. Che c'azzecca con la legge di stabilità (attenzione, non il "milleproroghe") ?
3. Da quando una concessione ha come termine il venir meno dell'utilità per il privato?
4. Perchè allora non "prorogare" le concessioni balneari finchè il mare non si è mangiato la spiaggia ?
5. Perchè continuare a chiamarla concessione e non usufrutto vitalizio ?
6. Perchè le royalties al 10% (quelle ufficiali) sono le più basse al mondo (dal 25% della Guinea allo 80% della Norvegia?
7. Perchè nella concessione non sono indicate latitudine e longitudine, ma la concessione è "unica" e valevole per più trivellazioni?
8. Perchè al di sotto delle 50 mila tonnellate scatta la franchigia e le società non pagano nulla, ma rivendono petrolio e gas al prezzo pieno di mercato?
9. Costa di più smantellare le piattaforme o farle funzionare in eterno estraendo sotto la soglia della franchigia?
10. Perchè il PD che ha confezionato e votato la norma oggetto del referendum, non ha il coraggio di sostenerla pubblicamente? Personalmente, anche senza ricorrere ai profili di tutela ambientale (peraltro da me pienamente condivisi) ce ne è abbastanza per convincersi che la norma oggetto del referendum altro non è che un "grazie" alle compagnie petrolifere. Il pasticcio è stato fatto ed è stato scoperto; sostenere il No al referendum significa dichiarasi apertamente collusi con quanti traggono un cospicuo vantaggio da una simile porcata. Idem per l'astensione (peraltro legittima, ma non è questo il problema) ».
AGGIORNATO IL 20 APRILE 2016
14 maggio 2015
Foreste distrutte per la palma? Ma anche per olivo, vite, agrumi, mais. E soia e girasole fanno peggio.
Le foreste primarie di Malesia, Indonesia, Sumatra e Borneo, senza contare le altre in Africa e Sud America, si stanno riducendo sempre di più, e ormai animali preziosi per l’ecosistema come l’orango e la tigre non trovano più il loro ambiente ideale e stanno scomparendo. Un disastro.
Senonché, una lobby occidentale, di cui fanno parte anche Greenpeace e Wwf (in Italia la campagna è stata ripresa anche dalla testata per consumatori Il Fatto Alimentare), ha accusato di questo scempio ambientale non i Governi o i popoli dell’Asia sud-orientale, come avrebbe dovuto, ma curiosamente i produttori dell’olio di palma e, indirettamente, l'olio stesso. Con la diffusione delle coltivazioni intensive di palma da olio, una pianta molto fruttifera e redditizia, autorità locali e piccoli produttori verrebbero attratti – questa l’accusa – da facili guadagni e immolerebbero sull’altare del profitto gli ultimi lembi di Natura vergine.
Per raggiungere lo scopo, art director e copy writer della campagna di disinformazione hanno deciso – e mal gliene incolse – di attaccare rozzamente lo stesso olio di palma in quanto tale, cioè come alimento, condimento e ingrediente di migliaia di prodotti alimentari industriali e artigianali, definendolo di volta in volta in un crescendo parossistico “dannoso al cuore”, “cancerogeno”, “tossico”, diabetogeno”, insomma “veleno mortale”. Hanno perfino inventato vari marchi pubblicitari con cui intendono catturare l’ingenuo, credulone, influenzabile e consumista popolo giovanile, pubblico ideale per i persuasori occulti delle lobbies e della pubblicità internazionale, perché non ha il minimo senso critico, ama poco la scienza e “se le beve tutte”. Ecco, quindi slogan come “No Palm Oil” o “Palm Oil Free”, dove quel free è l’unica cosa libera che riescono a concepire.
Naturalmente non è vero niente di queste “colpe” nutrizionali. Gli ideatori, i mandanti e gli esecutori materiali della campagna allarmistica (loro la chiamano “di sensibilizzazione”), forse conoscono un pochino botanica e zoologia, ma sono del tutto ignoranti in scienza della nutrizione e biochimica degli alimenti (oppure i loro consulenti scientifici sono delle schiappe), fatto sta che ci è stato facile smontare con un articolo monografico tutte le sciocchezze di cui l’olio di palma, in tutte le sue versioni, in quanto alimento, era accusato.
Come ampiamente dimostrato scientificamente, è un grasso come gli altri da noi comunemente usati nella nostra lunga Storia, innocuo se consumato con la prudenza e parsimonia che sempre bisogna avere con tutti i grassi (questi, sì, in toto a rischio se eccessivi o inseriti in diete sbagliate), un olio neutro – a essere severi – dal punto di vista dei parametri lipidici e della salute, anzi in certi casi perfino protettivo (p.es. come olio di palma vergine o red palm oil).
Ciò detto, la vera motivazione della campagna mondiale anti-palma dovrebbe essere ambientale, mentre in realtà è politica ed economica (lotta tra monopoli concorrenti). E’ vero che la dissennata deforestazione, per star dietro al folle consumismo alimentare del junk food (o cibo spazzatura: merendine, patatine, biscotti, dolci industriali ecc.) e impiantare sempre nuove coltivazioni di palma da olio, sta distruggendo l’ambiente originario e le foreste pluviali dell’Asia, evidentemente più amate dagli Occidentali che dagli Orientali, tanto che l’orango del Borneo e la tigre di Sumatra sono in via di sparizione.
Ma non è a causa dell’olio di palma. Anzi, il palmeto intensivo è un male minore. Se al posto delle palme da olio in Indonesia e Malesia ci fossero piantagioni di semi di piccole oleaginose, la quota di foresta vergine distrutta sarebbe stata molto maggiore (da 6 a 10 volte). Allora, sì, davvero ci sarebbe stato il disastro ambientale più irreparabile. Infatti, il palmeto ha un’altissima produttività: da un ettaro di palme si ottiene molto più olio che dalle altre oleaginose. Per ottenere 1 tonn di olio la palma distrugge foresta 4 o 5 volte meno dell’olivo, 6 volte meno della colza, 7 o 8 volte meno del girasole, quasi 10 volte meno della soia (v. tabella). Il consumo di suolo, quindi è molto minore con il palmeto, al contrario di quanto va dicendo la campagna di disinformazione.
Sul piano ambientale le piantagioni di palma non soltanto non sono il peggio, ma anzi si dimostrano, cifre alla mano, il meno peggio in assoluto tra le oleaginose. Se infatti le sostituiamo con le altre coltivazioni da olio ci accorgiamo che queste sono ancora meno eco-compatibili, cioè divorano più territorio, inquinano di più e sprecano più energia, come ha dimostrato uno studio-confronto tra coltivazioni di palma e cocco (Malesia), semi di rapa o colza (Germania), soia (Brasile), girasole (Francia), olivo (Spagna). I sei parametri con cui è stata valutata la produzione dei vari oli sono: 1. Energia, 2. Riscaldamento globale. 3. Acifidicazione, 4. Eutrofizzazione, 5. Smog fotochimico. 6. Uso del territorio.
Dalla tabella sui “costi energetici e ambientali si vede chiaramente che gli oli di girasole e di oliva, seguiti dall’olio di colza, hanno i maggiori costi ambientali, mentre cocco e palma hanno i costi ambientali più bassi.
Più in particolare, l’olio di girasole (SF nella tabella) ha un alto impatto ambientale perché è ottenuto da raccolti più bassi per ettaro, il che significa più fertilizzanti e pesticidi per tonnellata di olio prodotto. Anche l’olio di semi di rapa, colza o ravizzone (RP) ha un alto impatto ambientale, nonostante una più alta resa, perché è quello che richiede più concimi e pesticidi. L’olio di oliva (OV) ha il più alto impatto ambientale tra le piante perenni, perché richiede più fertilizzanti e pesticidi, e anche più mezzi meccanici. Invece, l’olio di cocco (CN) ha un impatto ambientale molto basso perché richiede scarsissimi livelli di pesticidi, e la maggior parte delle operazioni agricole devono essere compiute a mano, quindi senza carburante. Anche l’olio di palma (PO) ha un basso impatto, soprattutto a causa dell’abbondante resa in tonnellate per ettaro. BO è curiosamente olio di soia (soy Beans Oil).
Ma nella voce “energia” richiesta dalla pianta entrano numerosissimi fattori, anche molto costosi, come si vede nell’articolo, dai concimi e pesticidi all’acqua delle irrigazioni, dal carburante dei mezzi meccanici alla raccolta e all’estrazione dell’olio, dalle sostanze chimiche e solventi, al trasporto ecc.
I gas acidificanti sono quelli emessi nell’atmosfera, come quelli a base di ammonio, ossidi di azoto e di zolfo (NH3, NO2, SO3 ecc). L’eutrofizzazione è il versamento di sostanze nutrienti (per lo più fertilizzanti) nelle acque, come fossi, ruscelli, fiumi, laghi, mare, con possibilità di crescita di alghe e altri organismo che sottraggono ossigeno e rendono le acque inadatte a usi alimentari e alla vita degli animali. L’impatto sul riscaldamento globale è valutato sul consumo di anidride carbonica e metano per i combustibili bruciati, ma anche di ossido nitrico. Il potenziale smog fotochimico è dovuto all’emissione di VOC composti organici volatili che reagendo con ossidi di azoto e raggi ultravioletti solari possono produrre ozono a livello terreno (p.es. il gas esano, tradizionale solvente usato negli oli di semi raffinati). Il consumo di territorio è evidente, ma soprattutto nelle colture poco redditizie, che hanno bisogno di maggiore estensione, mentre quelle più redditizie a parità di produzione consumano molto meno terreno. Si noti, infine, che nella tabella PK è l’olio di palmisti, il nocciolo o seme della drupa della palma (Dumelin 2009).
Ad ogni modo le pressioni dell’opinione pubblica internazionale, informata o disinformata che sia, sono riuscite a imporre ad alcuni Stati produttori di olio di palma (ma perché non ai produttori di girasole e colza, che incidono molto di più sull’ecosistema?) una Tavola Rotonda da cui è scaturita la spinta a un “olio di palma sostenibile”, ottenuto cioè secondo stretti parametri di rispetto per il territorio e l’ecologia. I terreni, certificati col marchio CSPO (Certified Sustainable Palm Oil) o anche RSPO (Roundtable SPO), assommano ormai a ben 2,53 milioni di ettari, così suddivisi: Indonesia 50%, Malesia 41%, Papua Nuova Guinea 5,6%, Altri Paesi 4,2%.
Le colture di oleaginose più efficienti nel dare olio (tonnellate di olio per ettaro) sono ovviamente quelle che usano meno territorio, e insieme ai costi economici imprenditoriali abbassano anche quelli ambientali per la collettività: Olio di palma RSPO 5,0 t, Olio di palma 3,7 t, Olio di colza 0,7 t, Olio di girasole 0,6 t, Olio di soia 0,4 t (Fonte: Epoa). A queste rese possiamo aggiungere quelle, molto variabili dell’olio di oliva, sempre tonnellata di olio per ettaro: 0,8-1 (fonte: T.Nat.).
Coerenza vorrebbe, però, che fosse finalmente ostacolato, privato degli aiuti economici di Stato e poi addirittura vietato, l’uso come bio-combustibile di tutte le piante alimentari in grado si sfamare l’Umanità, come girasole e altri semi oleosi, oltre ai cereali. E anzi, il concetto stesso di bio-massa (legno, trucioli, piante, alimenti, scarti organici ecc.) da “recuperare” energeticamente in modo termico (leggi: bruciare...) è di per sé altamente inquinante.
Sul piano ambientale, coerenza vorrebbe, però, che chi si straccia le vesti per la tutela delle foreste primigenie del Sud-Est asiatico e contro la loro sostituzione con coltivazioni intensive di palma da olio, estendesse la sua critica a tutte le monocolture, di ogni epoca, anche in casa propria, anche contro i “bellissimi” vigneti del Chianti o dell’Astigiano, o gli “stupendi” oliveti della Liguria o della Puglia. A favore dei nostri ”artificiali” oliveti in Italia, infatti, sono sorti comitati di cittadini (forse gli stessi che protestano contro gli artificiali palmeti in Asia), sensibili sì, ma piuttosto ignoranti di storia dell’agricoltura, e incapaci di cogliere l’atroce contraddizione.
Ma chi se la prende con la monocoltura della palma non ha studiato la Storia dell’agricoltura e dell’alimentazione, altrimenti saprebbe che furono proprio gli Inglesi, che ora fanno gli schizzinosi (v. il Guardian), a introdurre la coltura della palma in Indonesia dopo il 1870. E saprebbe che il medesimo stravolgimento del territorio è avvenuto con ogni coltura intensiva. In Italia, prima la vite e l’olivo (dal X-VII secolo a.C.), e poi il nuovo frumento (la piana dell’etrusca Arezzo e l’intera Sicilia divennero, da boscose che erano, immense estensioni di campi di grano per alimentare i crescenti bisogni dei Romani), poi secoli dopo il granturco (mais), il riso e l’arancio, dal 1500 in poi hanno finito di distruggere il tipico, selvaggio paesaggio della Penisola, descritto dagli Antichi come una immensa e per loro paurosa distesa di foreste, uno dei luoghi più verdi e affascinanti del Mondo, trasformandolo in banali e spoglie colline, in piatte distese con monotone monoculture senza bio-diversità e il cui terreno esposto nudo alla pioggia e al vento tra un filare e l’altro si dilava e si impoverisce sempre di più, e richiede sempre più concimi. Il Chianti, la Sabina, la Puglia, le piane della Sicilia, l’intera val Padana lo dimostrano: tutte orrendamente deforestate, tutte dedicate alla monocoltura. E se a Sumatra, in Indonesia, gli oranghi sono a rischio per l’estendersi delle coltivazioni e per la caccia, anche in Italia sparirono l’orso e la lince per le medesime ragioni. E, anzi, oggi ci siamo talmente abituati a questo nuovo paesaggio artificiale da considerarlo “bello”, “tipico”, “tradizionale”, e metterlo addirittura in cartolina. Ma è stato tutto pianificato dall’uomo.
Del resto, il grande Emilio Sereni, storico dell’agricoltura italiana, nel famoso saggio Terra nuova e buoi rossi scrisse che è sempre stato l’uomo a creare il paesaggio, la cosiddetta “Natura” circostante, mai il contrario. E' vero, ma l’antropocentrismo estremo del marxista Sereni potrebbe essere mitigato così, in chiave più liberale ed ecologica. D’accordo, non potrebbe essere altrimenti, siamo noi - l'Uomo - a “fare” la Storia e l’ambiente circostante, come anche la selezione delle piante alimentari e del cibo. Ma dobbiamo sempre essere attenti ai “costi” di queste trasformazioni, oggi che abbiamo finalmente la consapevolezza che la Terra è finita e troppo piccola per i folli sogni di grandezza. Le modifiche, ormai, devono sempre dare un bilancio attivo in felicità: essere in accordo col clima, la Storia, il Paesaggio, l’ambiente, la salute di piante, animali e uomo. E un boschetto di tuje in mezzo a un bosco originario di querce o di abete rosso resta tuttora un non-senso, come anche – ammettiamolo – i troppi oliveti (e le troppe viti) impiantati in Italia dove non avrebbero mai dovuto essere impiantati.
Troppo comodo, anzi ipocrita, fare i “saggi” in casa altrui e a pancia piena, quando si è diventati ricchi e si è potuto studiare, anche l’ecologia, proprio grazie ai soldi venuti da padri o antenati che hanno per necessità assoluta di cibo o per speculazione distrutto il Paesaggio e la Natura, sia in Europa sia nel Nord America! Oggi dare da mangiare a tutti, troppi e a poco prezzo, anche ai Paesi ex-poveri che desiderano compiere finalmente i nostri stessi “errori”, compreso il consumismo del cibo industriale, le bevande dolci e il grasso economico e conservabile adatto all’industria e alla frittura (“effetto copia”) ha costi altissimi: aree sempre più estese di Natura vergine che vanno in fumo.
A proposito, sfidiamo Wwf, Greenpeace e tutti i boicottatori della palma a programmare una campagna anti-natalità e una campagna di vera educazione nutrizionale (niente riso bianco, p.es, e basta coi troppi fritti, col troppo zucchero e troppo sale: ecco, basterebbero già queste tre campagne per rieducare il Sud del Mondo). Meno nascite e cittadini più consapevoli di quello che mangiano vorrebbe dire meno alimenti-spazzatura richiesti, meno condimenti in eccesso, meno inutili cotture in olio, meno coltivazioni di canna da zucchero, colza, arachidi, girasole, soia, olivo, meno foreste distrutte e più ricchezza.
E quanti Paesi che fanno molti figli sono insieme poveri ma consumisti, avidi di cibi sbagliati e con malattie crescenti, cosicché il dannato “effetto copia” che li divora aumenta i casi di obesità, diabete, malattie cardiovascolari e tumori! E se glielo fai notare replicano indispettiti con l’accusa passe-partout di “razzismo”, e giudicano frutto di paternalismo i nostri avvertimenti che quel modo di mangiare opulento che noi abbiamo inventato è superato e fa male. Loro vogliono imitarci, ma senza neanche riconoscerlo, ripercorrendo senza saggezza in pochi anni tutta la nostra parabola durata millenni, copiando soprattutto gli errori. Ecco perché non serve alla falsa difesa dell’ambiente e della qualità della vita “in casa d’altri” (che noi occidentali non siamo capaci neanche di difendere in casa nostra) dire stupidaggini e falsità sulle foreste di palma da olio.
DUMELIN EE. The environmental impact of palm oil and other vegetables oils. Paper at Society of Chemical Industry Conference “Palm Oil the Sustainable 21th Century Oil Food, Fuel and Chemicals”, London, 23-24 March 2009.
AGGIORNATO IL 12 MARZO 2021